Nel 2016 il tasso di occupazione in Italia è pari al 57,2 per cento della popolazione in età attiva,
un livello inferiore a quello osservato nel complesso dell’Ue e ancor più basso se si considerano i soli paesi
fondatori. Il ritardo dell’Italia sul fronte della partecipazione al lavoro >leggi ancora
non è una novità: sin dai tempi della firma dei Trattati di Roma i tassi di occupazione italiani sono stati sempre più bassi
rispetto a quelli dell’aggregato E6; soltanto negli anni Ottanta si assiste a una riduzione del divario,
che diventa inferiore a 4 punti percentuali raggiungendo il suo minimo nel 1984. I livelli massimi
di divergenza si osservano invece durante la recente crisi: in questi anni il divario tra l’Italia e
l’Europa dei sei, ma anche dei 28, è il più elevato mai riscontrato. L’obiettivo di Europa 2020 di
un tasso di occupazione al 75 per cento appare molto lontano.
Nella lunga strada verso la parità di genere, negli ultimi 60 anni le differenze fra l’Italia e i sei
paesi fondatori si sono accentuate. Nei decenni immediatamente successivi la creazione della Comunità europea,
infatti, l’aggregato E6 mostra una continua diminuzione (anche se più lenta all’inizio) delle differenze di genere
nei tassi di occupazione. Al contrario, nel nostro Paese, un cambio di passo interviene soltanto a partire
dagli anni Settanta: i punti percentuali che separano i tassi di occupazione maschili e femminili sono 50 nel 1970,
e si riducono a 18 nel 2016. Ma ancora molta strada ci separa dal complesso dei paesi dell’Ue e dall’aggregato
dei sei fondatori.
Nel 1963 il tasso di disoccupazione in Italia è al 4 per cento: un minimo storico, ma un tasso comunque
superiore a quello del gruppo dei sei fondatori. Una dinamica simile accomuna Italia ed E6 fino al 2001. Dal 2004
al 2007 il nostro Paese >leggi ancora
si attesta su livelli di disoccupazione inferiori al complesso dei fondatori,
ma il risultato è di breve durata. Con la crisi riemergono le difficoltà del mercato del lavoro italiano:
dal 2007 il tasso di disoccupazione risale, superando già nel 2008 l’aggregato dei paesi fondatori e, nel 2012,
anche il complesso dell’Ue. Il 2014 è l’anno in cui in Italia si registra il più elevato livello del tasso
di disoccupazione degli ultimi 60 anni. Nel periodo più recente la situazione migliora.
La partecipazione al mercato del lavoro, misurata con il tasso di attività, mostra per quasi 20 anni dalla firma dei Trattati di Roma
un andamento negativo, più accentuato in Italia rispetto al complesso dei sei fondatori. Soltanto nel 2000 >leggi ancora
il tasso di attività dell’Italia torna al livello del 1960. Questi sviluppi si traducono in
una crescente divaricazione rispetto ai paesi E6, ampliatasi negli anni della crisi. Nel 2016, infatti, il divario
con i sei fondatori è di oltre 10 punti percentuali (erano poco più di 3 nel 1960). Meno marcata invece, anche
se consistente e pari a 8 punti percentuali, la distanza con l’insieme dell’Ue.
Nel corso di questi primi 60 anni d’Europa i profondi cambiamenti demografici e sociali hanno messo i lavoratori “anziani” sempre più al centro
delle politiche. La maggiore longevità determina pressioni crescenti sui sistemi >leggi ancora
di welfare, previdenza e assistenza, rendendo necessaria una prolungata permanenza sul mercato
del lavoro. In Italia il tasso di occupazione dei 55-64enni è più basso sia di quello medio europeo sia di quello calcolato
sull’aggregato dei paesi fondatori. In particolare il divario rispetto all’insieme dei sei fondatori, che era di 2 punti
percentuali nel 1983, si è ampliato nel corso del tempo: la crescita dei livelli occupazionali di questa fascia di età –
che pure c’è stata a partire dai primi anni Duemila – è stata meno intensa rispetto ai partner europei.
Nei primi anni Ottanta il divario fra il tasso di occupazione maschile e femminile nella fascia di età 55-64 anni era davvero
ampio, in particolare in Italia. Tale differenza, che pure si è attenuata a partire dagli anni Novanta, mantiene lontana
la situazione italiana da quella dei sei fondatori, che hanno visto ridursi le disparità di genere più intensamente di quanto
non sia accaduto nel nostro Paese.
La quota dei salari, cioè la percentuale di reddito spettante al lavoro dipendente (corretta per tenere conto delle differenze nella composizione del lavoro)
dagli anni Ottanta è andata diminuendo nell’insieme dei Paesi fondatori e ancor più in Italia. Trattandosi di un indicatore anticiclico >leggi ancora
– nelle fasi iniziali delle crisi la quota dei redditi da capitale tende a diminuire di più rispetto ai redditi da lavoro - nel periodo 2008-2010
si è avuto un recupero sostanziale (come già, in misura minore, nel 1975, nel 1982 e nel 1991-92). Questo ha però solo temporaneamente interrotto la tendenza storica
al deterioramento della quota del lavoro nel prodotto.