All’indomani della Seconda guerra mondiale la crescita demografica procede in tutta Europa a ritmi sostenuti, con gli incrementi più
consistenti tra i primi anni Sessanta e i primi anni Settanta. Benché intorno al 1975 la crescita >leggi ancora
cominci a rallentare ovunque, è dal 1980 che la traiettoria dell’Italia si distacca nettamente da quella degli aggregati
europei, poichè si apre una fase, che durerà fino al 2001, in cui la popolazione rimane pressoché stabile. Soltanto dall’inizio del nuovo millennio
la crescita della popolazione italiana riprende a ritmi sostenuti, soprattutto per l’apporto della popolazione straniera, e la forbice con gli aggregati
europei torna a ridursi. Questo processo si arresta con la Grande recessione iniziata nel
2008 quando la popolazione italiana dapprima ristagna finché nel 2015, per la prima volta dall’unificazione, diminuisce.
Storicamente, con limitate eccezioni, il dopoguerra si caratterizza, sia in Italia sia in Europa, per un andamento delle nascite decrescente. In
Italia, gli anni del boom economico >leggi ancora
rappresentano un’eccezione, e nel 1964 le nascite toccano un picco. L’andamento è condiviso dall’insieme dai Paesi europei, con
l’eccezione dei 6 fondatori che si trovavano in uno stadio più avanzato della “transizione demografica”. Dopo quell’anno, le nascite diminuiscono
progressivamente in tutta Europa. L’andamento italiano è dapprima in linea con quello continentale, ma dal 1974 accelera allontanandosi, in negativo, da quello
europeo. A partire dalla metà degli anni Ottanta il numero annuale delle nascite si stabilizza in Italia e – con qualche oscillazione in più – negli aggregati
europei. Anche in questo caso, l’insorgere della crisi si traduce in un calo progressivo delle nascite, ben più marcato in Italia che nel resto d’Europa.
Contrariamente a una credenza radicata, il numero medio di figli per donna in Italia si mantiene inferiore ai valori europei (con riferimento sia ai 6
paesi fondatori sia al complesso dell’Ue) fino a metà degli anni Sessanta. Sebbene >leggi ancora
da quella data inizi un diffuso declino, il tasso di fecondità totale rimane superiore ai 2
figli per donna sino alla metà degli anni Settanta. Negli anni Novanta si raggiungono i punti più bassi: nel quinquennio 1995-2000 per l’Italia e per l’insieme
dell’Ue, rispettivamente con 1,22 e 1,47 figli per donna; nel quinquennio precedente per l’E6, con 1,44 figli per donna. Dall’inizio degli anni Duemila si
registra un aumento per tutti gli aggregati considerati, da attribuire in buona parte alla componente straniera.
L’età delle donne al parto è in Italia strutturalmente superiore a quella rilevata negli aggregati europei, con un divario compreso tra i sei mesi e i
due anni. Quanto alle tendenze, il periodo di osservazione è nettamente divisibile >leggi ancora
in due sotto-periodi: nel primo l’età diminuisce; nel secondo, anche per effetto di un generalizzato
spostamento delle diverse tappe di passaggio alla vita adulta, cresce rapidamente. La prima tendenza caratterizza gli anni compresi tra il 1950 e il 1980. Nel
quinquennio 1975-80 l’età media al primo figlio era di 27,5 anni in Italia, 26,8 nell’E6 e 27,8 nell’Ue. Tra il 1990-95 in Italia e nel resto d’Europa si torna a
valori molto vicini a quelli dell’inizio degli anni Cinquanta (29,3 in Italia, 28,6 nell’E6 e 27,8 nell’Ue), che vengono superati nei quinquenni successivi. La
tendenza verso l’aumento trova conferma anche nelle proiezioni.
Sebbene il miglioramento della vita media sia una tendenza di lungo periodo comune a tutti i paesi sviluppati, fino all’inizio degli
anni Settanta il valore italiano si è mantenuto >leggi ancora
al di sotto di quelli rilevati nell’E6 e nell’Ue. Da quel momento la speranza di vita in Italia è rimasta costantemente
più elevata di quella riferita agli aggregati europei. Siamo attualmente uno dei paesi a maggiore longevità, all’interno di un continente comunque caratterizzato
da valori molto elevati.
Per effetto dell’aumento della speranza di vita e del rallentamento delle nascite, la popolazione europea invecchia. L’Italia, che negli anni Cinquanta
era tra i paesi europei >leggi ancora
più giovani, rispetto agli altri è invecchiato di più e più rapidamente. Se nel 1957 la metà della popolazione italiana aveva meno di
31 anni, ora ne ha più di 45. In sessanta anni, dunque, il baricentro della popolazione italiana si è spostato di oltre 15 anni. Un fenomeno simile ha
interessato, anche se in misura minore, gli aggregati europei, dove lo spostamento è stato di 11 anni: da 33 a 44 anni in E6 e da 32 a 43 nel complesso dell’Ue.
Come accennato, e per le ragioni illustrate in precedenza, già dall’inizio degli anni Sessanta lo scenario che si va delineando in Europa è quello di una
popolazione che invecchia. L'indice di dipendenza >leggi ancora
giovanile, cioè la percentuale di giovani fino a 14 anni, in Italia dopo essere rimasta stabile con valori prossimi al 37-38 per cento fin
verso la fine degli anni Settanta, è poi scesa molto rapidamente fino al 1992, stabilizzandosi da quel momento su valori intorno al 21-22 per cento.
Il divario rispetto ai due aggregati europei considerati (E6 e Ue28) – che pure hanno seguito un andamento sostanzialmente analogo – si mantiene nell’ordine dei
2 anni, a nostro svantaggio. La popolazione anziana, quella composta dalle persone di 65 anni e più, ha seguito prevedibilmente un andamento opposto, anche se i
cambiamenti sono stati relativamente meno rapidi e più diffusi all’intero periodo: si attestava intorno al 14 per cento della popolazione italiana nel 1960 e
aveva raggiunto il 34,2 per cento nel 2016. Il fenomeno è comune a tutt’Europa, ma è meno accentuato nell’E6 (dal 16,6 del 1960 al 31,5 del 2016) e ancora meno
nell’Ue (rispettivamente, 15,2 e 29,5 per cento). Di conseguenza, l’incidenza degli anziani – che all’inizio del periodo era più bassa in Italia che in Europa –
nel nostro Paese è ora di quasi 5 punti al di sopra della media europea e di quasi 3 al di sopra di quella dei sei fondatori.
L’Italia è stata storicamente un Paese di emigrazione e gli espatri eccedono gli arrivi fino all’inizio degli anni Settanta. Segue un lungo periodo di
stasi, in cui ingressi e uscite si compensano >leggi ancora
e si attestano su valori piuttosto bassi. Dal 1991 l’Italia diventa un Paese d’immigrazione ma il fenomeno, in crescita fino al 2007,
rallenta poi sensibilmente per effetto della Grande recessione. Gli andamenti europei sono difficili da sintetizzare, dipendenti come sono dalle condizioni
economiche e dalle politiche migratorie dei singoli paesi, ma nel complesso l’Europa è stata e continua a rappresentare un polo d’attrazione di consistenti
flussi in entrata.